«La fine dell’anno è viva immagine della nostra vita. Com’è trascorso velocemente l’anno che oggi muore, così al punto della morte la vita non ci sembrerà che un sogno.
Nell’ultimo articolo del Credo diciamo “Credo la vita eterna”; orbene chi crede all’eternità lavora per l’eternità».Queste parole di don Marchisio indicano l’atteggiamento del suo animo di fronte alla morte. La vita è sogno, l’eternità è realtà. Conviene vivere bene il sogno, perché la realtà sia felice.
Alcune vetrate della cappella della Casa madre
che presentano il transito di san GiuseppeAlcune vetrate della cappella della Casa madre
san Pasquale Baylon sopra, patrono delle Opere eucaristiche e il Beato Clemente MarchisioNell’aprile, di ritorno a Rivalba, aveva fretta di moltiplicare le sue attività pastorali. Ma in giugno cominciarono a manifestarsi sintomi inquietanti circa il suo stato di salute: frequenti capogiri, offuscamento della mente, dolori acutissimi nell’orecchio sinistro. Non riusciva a riposare. Nonostante i dolori, nessuno poté trattenerlo dal partire per visitare di nuovo alcune comunità. A tutte le sue Figlie sembrava davvero ormai che le sue parole di saluto fossero le ultime, come l’addio di chi si sente in procinto d’intraprendere il viaggio verso l’eternità.
IL COMMIATO
Il 20 luglio, mentre si trovava a Venezia ospite del card. Giuseppe Sarto, giunse la notizia della morte di Leone XIII. Chi gli avrebbe detto che proprio il suo santo Amico sarebbe stato di lì a poco eletto Papa? Non è a dire la gioia che ne provò. La Provvidenza volle che fosse proprio il Papa Sarto, come abbiamo accennato, a dare l’approvazione pontificia definitiva all’Istituto.
Il 29 luglio concluse la visita e a chi gli domandò come gli fosse andato il viaggio rispose: «Sono arrivato a casa, perché Dio l’ha voluto. Ebbi però dei momenti così brutti da non sapere dove fossi. Già pensavo che molto difficilmente avrei potuto trascinare fin qui la mia carcassa. Ma Dio mi ha sostenuto. Sono contento d’avere visto le mie Figlie. Deo Gratias!».
Armadio conservato alla Casa madre di Rivalba,
usato dal Fondatore per riporre i paramenti sacri.L’esito dell’intervento fu ottimo.
La sua maggior sofferenza durante la convalescenza fu di non poter celebrare la Messa. Il suo coadiutore gli portava ogni mattina la Comunione ed egli rimaneva a lungo, in profondo raccoglimento, per ringraziare il Signore e disporsi alla comunione del giorno dopo. Era solito ripetere: «Fin che avrò forze, voglio compiere il mio dovere». E il dovere che gli restava da compiere era quello di prepararsi al suo ultimo passo, quello che si fa quando scende l’ultima sera.
LA CHIAMATA DI DIO
Il 23 novembre volle riunire alla sua mensa vari sacerdoti. Festeggiava il suo onomastico, S. Clemente, e aveva deciso di aprire le porte della sua casa ai più intimi amici. A chi domandava il perché di quella eccezione, il coadiutore rispondeva: «Cosa volete che dica? Si è messo in testa che questo è l’ultimo onomastico che fa sulla terra».
Il giorno seguente s’inginocchiò davanti alla Consolata di Torino, ringraziandola per il felice esito dell’operazione. Per dimostrare poi la sua devozione alla Madonna, preparò con ardore l’8 dicembre la festa dell’Immacolata. La sua predicazione fu ardente, solenne. Dette tutto ciò che sentiva dentro, senza ritenersi nulla. Quella fu la sua ultima predica.
Lunedì 14 dicembre 1903, dopo aver celebrato la santa messa, lavorò forte, scrisse diverse lettere e ordinò l’archivio parrocchiale. Alle ore 21, quando due suore vennero per sollecitare la sua presenza al castello dove suor Rosalia Sismonda era entrata in agonia, non se la sentì di andarvi, perché non stava bene. Promise però che sarebbe andato il giorno dopo per celebrarvi la messa.
Nessuno sa come trascorse la notte. Di buon mattino si alzò e prese la strada verso il castello. Il suo passo era lento e respirava a fatica. Arrivò molto pallido e, dopo un breve riposo, volle celebrare la messa. Mentre si metteva l’amitto, svenne. Lo riportarono in canonica. Quando si riprese, fece chiamare la superiora per aver notizie della suora e pregarla di avvertire i parenti della gravità dell’ammalata. Verso l’ora del pranzo, non riuscendo più a sopportare i dolori, si coricò.
Scalone che unisce la Casa Madre alla Casa di spiritualità a Rivalba
Salendo questi gradini per dare l’estremo saluto a suor Rosalia Sismonda gravemente inferma, il Fondatore, già sofferente, ha patito il malore che lo ha condotto a morte.La notizia del suo stato delicato preoccupò le sue Figlie che organizzarono turni di adorazione a Gesù Sacramentato. Si rispettò il desiderio di essere lasciato solo fino a quando il dottore diagnosticò che era stato colpito da una congestione cerebrale e che le sue condizioni erano gravissime. La sua agonia incominciò a sera inoltrata e durò fino alla morte, avvenuta verso le cinque del mattino del 16 dicembre 1903. Poche ore prima aveva fatto ritorno alla casa del Padre la sua grande collaboratrice, suor Rosalia Sismonda.
Settant’anni e nove mesi di età, quarantatré di apostolato sacerdotale, ventotto come fondatore: ecco quanto portò don Clemente Marchisio al Signore che aveva servito con dedizione assoluta su tutte le strade che egli gli aveva indicato.
Casa delle Figlie di San Giuseppe in località Niguarda (Milano), oggi
Acquistata da don Marchisio nel 1902.Casa delle Figlie di San Giuseppe in località Niguarda (Milano)
dotata ora di un impianto industriale per confezionare particole per la celebrazione EucaristicaIL SUO MESSAGGIO
Qual è il messaggio che ci ha lasciato don Marchisio?
Anzitutto quello del sacerdote in cura d’anime e poi quello del fondatore di una Congregazione religiosa. La sua vita come parroco è stata molto lineare, con una seminagione abbondante e un raccolto modesto:
si sparge amore e si raccoglie talvolta odio; si dà a piene mani e si ricevono briciole. In questo, nulla di straordinario, nulla di nuovo per colui che prende Cristo come modello.
Come le spine custodiscono il fiore, così la grazia di Dio preserva l’anima che a Lui si dona.
Rose nel cortile della casa natale di don Clemente a Racconigi.Don Clemente, sacerdote e parroco, è vissuto così e, senza saperlo né pretenderlo, fu capace di lasciare un valido esempio: le anime per Dio, il resto non bisogna tenerlo in conto. Dare senza ricevere, seminare senza raccogliere, amare senza essere amati.
E qui s’inserisce il suo secondo messaggio. Dio non chiama don Clemente a entrare in un convento a professare povertà, castità e obbedienza. Gli fa capire l’importanza di questa professione per quelle anime che si sentono chiamate a vivere più intensamente di Dio e a rispondere ad un amore di predilezione. Diventa fondatore di un Istituto religioso quasi senza saperlo, mentre cerca il bene delle anime, di quelle che gli erano state affidate a Rivalba. Solamente dopo si apriranno per lui orizzonti più vasti.
Campanile della Parrocchia di Rivalba visto dal castello
«Bisogna ricordare l’Amore dimenticato, servire l’Amore mal servito, apprezzare l’Amore disprezzato. Dapprima nella propria anima e poi nelle manifestazioni esteriori di un culto speciale».
Alle sue Figlie lasciò come testamento questo messaggio: l’Eucaristia.Centro del culto cattolico l’Eucaristia deve essere per le Figlie di San Giuseppe il centro di tutta la vita, il fulcro su cui poggia l’attività, il perno intorno a cui si muove tutto l’essere e l’operare.
A don Clemente Marchisio l’onore di essere stato docile strumento di Dio per far giungere a tutti questi due messaggi, che pur sembrando diretti a categorie diverse, sono validi per ognuno di noi e per tutta la Chiesa di Cristo.